Le cinque giornate di Adrano

Nel 1866 Adrano, cittadina della Sicilia orientale, attualmente in provincia di Catania, ebbe, al pari di Milano, le sue fatidiche cinque giornate.

Mentre, però, i moti lombardi avevano come obiettivo l’indipendenza dalla dominazione austriaca, la rivolta popolare di Adrano si svolse a Unità di Italia già fatta. Un contesto storico, quello post-unificazione, estremamente difficile per tutto il meridione e, in particolare, per la Sicilia.

L’avversione della Sicilia contro il nuovo regno

L’anno delle sommosse di Adrano fu un anno sfortunatissimo per l’appena costituito Regno d’Italia che aveva unificato la penisola da soli cinque anni.

Ci fu, infatti, una drammatica epidemia di colera che sconvolse il Paese da Nord a Sud provocando innumerevoli vittime. Inoltre, si combatté di nuovo contro l’Austria e a Palermo le ambizioni separatiste dell’isola sfociarono in una vera e propria rivoluzione.

In Sicilia, dopo l’unificazione, la realtà dei fatti e le condizioni del popolo erano tali da suscitare una profonda avversione verso il regno da parte di tutti gli ambiti sociali.

Non erano, infatti, solo i poveri a essere scontenti. Il ceto ecclesiastico non aveva gradito l’espropriazione delle proprietà dei conventi; la borghesia non vedeva di buon occhio le tasse esose e gli umili cittadini pativano per la scarsità di lavoro e per essere obbligati a prestare il servizio militare che li allontanava dai campi o dalle piccole botteghe di artigianato.

In un canto in voga all’epoca si parlava di una Sicilia di carta i cui materiali preziosi erano svaniti nel nulla dopo la proclamazione dell’unità dello Stato italiano.

1866: l’anno del colera

La popolazione, aizzata dai seguaci dei Borbone e del clero, era in fermento. La miccia che fece esplodere la protesta fu proprio il colera che arrivò nell’isola nel settembre del 1866.

Si credeva, infatti, che l’epidemia fosse da imputarsi ai piemontesi che, tramite l’orribile male, avevano intenzione di sopprimere gran parte dei siciliani per liberarsene e arricchirsi con le tasse di successione.

Quella che era solo una voce di popolo, assunse presto il valore di verità e si diffuse molto velocemente. Il popolo, infatti, non dubitava affatto che i conquistatori piemontesi avessero commesso una tale atrocità.

D’altronde gli atti crudeli di cui si erano macchiati dimostravano che erano capaci di tutto. Per contrastare la renitenza al servizio militare, avevano, per esempio, dato fuoco a intere famiglie, assediato e assetato molti centri abitati e compiuto azioni barbare come le 154 bruciature inflitte ad un giovane sordomuto di Palermo, sospettato ingiustamente, di fingersi inabile alla leva.

La rivolta delle sette e mezzo e le cinque giornate di Adernò

Quando arrivò il colera, dopo tante aberrazioni, la popolazione di Palermo reagì con una insurrezione che ebbe la durata di una settimana e mezza (dal 16 al 22 settembre): da qui il nome di rivolta del sette e mezzo.

Dal capoluogo, il fuoco rivoluzionario si trasmise ad Adernò, antico nome di Adrano (mantenuto fino al 1929). La sommossa durò meno di Palermo: solo 5 giorni, dal 28 settembre al 2 ottobre.

Le vicende di quelle epiche giornate furono narrate in un libricino opera di Benedetto Guzzardi Moncada, patriota che aveva partecipato allo sbarco dei Mille e che Garibaldi usava chiamare il suo “bell’angelo biondo“.

Nel suo resoconto il Guzzardi si dichiara difensore di Adernò elogiando le gesta della città e smentendo chi la definiva incivile. La sommossa di Adrano, secondo il barone, non fu opera di criminali: i briganti che erano insorti, non erano delinquenti, ma giovani patrioti onesti.

Adrano: l’insurrezione placata con la forza

La rivolta scoppiò il 28 settembre quando la popolazione Adranese per i motivi già citati (il colera e la voce secondo cui era stato il governo a diffondere il morbo per intascare le tasse sulla successione delle vittime) e su sollecitazione dei giovani uomini che non volevano prestare il servizio militare, si riversò in massa nelle strade.

Le autorità definirono l’azione dei rivoltosi come uno scellerato saccheggio. Immediatamente si mobilitò la Guardia Nazionale locale e, già il giorno dopo, per contrastare la rivolta, da Catania, si riversarono ad Adrano due intere compagnie di fanteria agli ordini del capitano Luigi Gabriele Pessina.

La rabbia del popolò, però, non si placò neanche all’arrivo dei rinforzi, nonostante il tentativo di pacificazione del barone Filadelfo Ciancio. Chi poteva abbandonava Adrano per cercare rifugio dagli scontri in campagna.

L’apice della sommossa si ebbe a causa di strani fuochi d’artificio che illuminavano la notte di Adrano e per l’aumento dei morti di colera. I rivoltosi tentarono addirittura di linciare due presunti untori. I tumulti si conclusero amaramente il 2 ottobre, alle due del pomeriggio, cinque giorni dopo l’inizio, quando la fanteria condotta da Pessina disperse il popolo che affollava le strade.

La rappresaglia nelle cinque giornate di Adrano

Le autorità non si accontentarono di placare la rivolta con la forza, ma infierirono sulla popolazione con feroci rappresaglie.

Tre giovani di una stessa famiglia furono giustiziati, per un tragico errore, dai soldati incuranti della giovane età del minore di appena 15 anni e del ruolo di pacificatore che un altro dei fratelli Crucillá aveva cercato di svolgere in funzione della sua appartenenza alla Guardia Nazionale.

Lo stesso resoconto del barone Guzzardi fu messo in discussione da un medico Adranese che gli rinfacciava di aver lasciato il paese già il 30 settembre e che, avendo vigliaccamente abbandonato il campo, non poteva avere la conoscenza sui fatti che, invece, ostentava nel suo opuscolo.

Condividi

Lascia un commento

 

 / 

Accedi

Invia un messaggio

I miei preferiti